venerdì 14 dicembre 2012

I legami narcisistici e oggettuali della coppia e la loro articolazione con la differenza dei generi


Torniamo sul tema dalla coppia prendendo parte dell'interessante intervento del dott. Eiuguer avvenuto nel convegno sulla coppia del 2009.

La teoria del legame di coppia è un modello che può essere esaminato da tre punti di vista.
Dal punto di vista concettuale, esso propone un quadro solido che permette di avvicinarsi al funzionamento della coppia in modo originale, come a un’entità psichica distinta e di capire il suo funzionamento e la sua struttura.

Dal punto di vista empirico, questa teoria si applica alla clinica e al trattamento dei problemi, dei conflitti e delle crisi di coppia.

Dal punto di vista pragmatico, questa teoria assicura l’efficacia della terapia in seguito alla messa in atto di strumenti adatti e coerenti con la teorizzazione. Nella misura in cui la coppia è vista come un raggruppamento distinto, essa è osservata isolatamente. Le interpretazioni degli aspetti disfunzionali del legame prendono di mira il suo funzionamento inconscio, suscitano una evoluzione, promuovono dei cambiamenti, e, a lungo temine e nei casi migliori, la soluzione dei
problemi. Il concetto di legame si applica inoltre ai rapporti terapeuta- partners della coppia.

Poiché i diversi partecipanti alla terapia sono in legame tra loro, i loro funzionamenti inconsci si articolano secondo una intersoggettività modificata dalle risonanze fantasmatiche e emozionali, che sono innescate dallo stato di innamoramento all’inizio della relazione e che l’approfondirsi del legame sviluppa ulteriormente. 

L’illusione iniziale può certo sbiadire,ma l’inconscio di ciascuno avrà messo in moto altre intese, che fondano un tipo di intimità e di complicità che i protagonisti non trovano in nessun altro loro legame. Per tutti questi motivi è stata progressivamente adottata l’espressione legame intersoggettivo. In realtà la teoria del legame è stata arricchita in questi ultimi decenni dagli apporti dell’intersoggettività, e viceversa.


Oggi si sviluppa intorno ad essa un ampio campo, che va dalla sua applicazione all’ analisi individuale, all’analisi istituzionale delle cure e della comunità, passando per quelle di gruppo, della famiglia, dell’impresa. 

In altri termini, la teoria del legame intersoggettivo vede la coppia come una “collettività” inconscia. Per motivi di tempo e di pertinenza, focalizzerò la mia esposizione su uno degli aspetti del legame intersoggettivo della coppia: l’importanza e la risonanza della differenza dei generi sul suo funzionamento e sulle sue disfunzioni. Abbiamo bisogno dell’altro; se ci leghiamo a lui è perchè nasciamo deboli e immaturi, anche se ci siamo evoluti dall’età più tenera.

 Ma questo attaccamento all’altro può incoraggiarlo a utilizzarci, se la dipendenza verso di lui è massiccia. Nondimeno, colui che si dice poco dipendente sta occultando o reprimendo il fatto che ha anche lui un grande bisogno di compagnia e di sostegno. La parola legame ha giustamente due accezioni: attaccamento reciproco ed assoggettamento. 

La dipendenza dunque può condurre a degli eccessi.
Un legame è più di una relazione tra due persone; esse si influenzano reciprocamente, costruiscono dei fantasmi, dei miti e delle difese comuni. Via via che il legame si stabilisce, i due soggetti tendono a sintonizzare le loro reazioni e i comportamenti: i loro affetti si avvicinano, e ciò malgrado loro stessi.

Una sorta di illusione fa sentire loro che sono della stessa specie, e molte altre impressioni: sulla loro comprensione del mondo e tra di loro, sulle loro credenze, ecc…La loro dipendenza reciproca li porta talvolta a dimenticare che sono diversi, che hanno dei desideri propri.

Questa evoluzione ripete il percorso dell’interazione madre- lattante.
Evidentemente, un legame tra adulti comporta altre dimensioni, conviene ricordarlo, ma queste altre dimensioni sono trattate dal legame, in maniera interattiva e intersoggettiva.
Ognuno può vivere l’altro come una parte di sé, ancora più grave sarebbe viverlo come completamente come sé stesso.

Numerosi conflitti di coppia sono generati dal sentimento che l’altro abbia un’ascendente troppo forte sul primo, che voglia influenzarlo e annullare la sua personalità; spesso è un sentimento legato alla vita psichica comune, che si organizza in maniera inconscia. Ma a volte l’influenza è potente e lo è particolarmente al momento della deriva perversa dentro al legame, che rappresenta un tentativo di annichilire l’altro, il cui desiderio è vissuto come ciò che porta all’insubordinazione, al pensiero critico, posizione che è al tempo stesso temuta e desiderata.

Eccetto queste situazioni estreme, e può darsi che ciò che vi dirò le incoraggi, ogni legame tende a cancellare i limiti interpersonali, e ancor più l’identità rischia di perdere in consistenza, la sua fermezza. Il legame riproduce in qualche modo quell’istante in cui il soggetto passa dall’investimento sull’altro all’identificazione con lui. Quando quest’ultima è compiuta, l’investimento tende a diluirsi o piuttosto a mutare. L’oggetto, che fino a quel momento era “alla periferia” del sé, viene a integrare l’identità del soggetto. Nella coppia, questo provoca diverse contrarietà, la conseguenza estrema è l’impressione quasi delirante di essere posseduto da qualcun altro.

Il legame implica dunque una presenza tangibile, quella dei due soggetti, e una struttura di funzionamento. Ci saranno due modi di considerarlo, come una diade o come una situazione a due in cui ciascuno vede l’altro in quanto altro. Si può osservare che l’altro è considerato secondo tre variabili : altro-indifferenziato, altro-oggetto, altro-soggetto. È importante mettere l’accento su ciò che noi viviamo in relazione all’altro, perché il saperlo è vitale per promuovere il riconoscimento reciproco, cosa che non va da sé. L’altro è avvertito da alcuni come un magma indifferenziato. 

Per altre persone, l’altro è vissuto come la rappresentazione inconscia del proprio oggetto, parente, antenato…ecc. Per altre persone ancora, l’altro è considerato come soggetto separato, il cui posto nello spirito è creatore di senso e di vissuti psichici. Possiamo provare a sovrapporre un oggetto interno sull’altro-soggetto, è ciò che facciamo regolarmente, ma questo non basta per sentire l’altro come un soggetto che ha un funzionamento inconscio, una soggettività, la sua storia, i suoi gusti, i suoi valori.

Questo altro-soggetto ci dice qualcosa, ci guarda, ci chiede d’essere tenuto in considerazione, di sentirci vicini a lui emotivamente, preoccupati da ciò che gli succede, coinvolti anche nelle sue difficoltà, e di sentirci rassicurati sul suo amore.
La maggior parte degli studi, psicoanalitici e non, ignora queste sfumature,ma esse ci sono comunque. La teoria del legame intersoggettivo si presta bene a integrarle e comprenderle.

La dimensione etica dipende dal sentimento di responsabilità che si prova per questo altro-soggetto. Da questa prospettiva, immaginatevi cosa può significare il progetto di reinterpretare il concetto di Super-io con il metro della dimensione intersoggettiva. Questo implica certo un grande sconvolgimento. Si può notare come il legame comprenda sempre questi tremodi di rappresentarci l’altro indifferenziato/oggetto/soggetto, ma uno può predominare, il che determina vari problemi.

Vorrei mettere l’accento su una difficoltà di numerosi clinici e terapeuti. Si tratta del pensare al legame di coppia come a un qualunque legame. Però la coppia ha delle specificità che conviene prendere in considerazione. Ma perché questa impossibilità a integrare queste specificità? Non lo so. C’è un campo raramente considerato: la differenza dei generi. 

Essa è talmente vitale, che la maggior parte dei conflitti tra coniugi ha a che vedere con essa. Sartre sottolineava nel 1943 (pag. 423-5), che la fenomenologia esistenziale ha scotomizzato allo stesso modo il fatto e questa differenza: si sorprendeva che una scuola che spinge all’essere-per-l’altro si disinteressi dell’incontro erotico tra i soggetti – che dipende, come sappiamo, dal loro maschile e femminile – quando esso appare come l’esempio stesso di una intersoggettività in movimento.

La fenomenologia ha permesso giustamente la distinzione della relazione verso un altro-oggetto dalla relazione verso un altro-soggetto. Sartre suggerisce: “Essere sessuato significa in effetti esistere sessualmente per un altro che esiste sessualmente per me - restando inteso che questo altro non è necessariamente, né principalmente per me, né per sè, un essere eterosessuale ma solamente un essere sessuale in generale.

Considerato dal punto di vista del per sé, questo sequestro della sessualità altrui non potrebbe essere la pura contemplazione disinteressata dei suoi caratteri primari e secondari.
Nessuno è per prima cosa sessuato per me, perché io lo deduco dalla distribuzione di un sistema pilifero ad esempio..il primo apprendimento della sessualità dell’altro, in quanto vissuto e sofferto, non potrebbe essere altro che il desiderio; è nel desiderare l’altro (o nello scoprirmi incapace di desiderarlo), o nel cogliere il suo desiderio di me, che io scopro il suo essere sessuato, e il desiderio scopre al tempo stesso il mio essere sessuato e il suo essere sessuato, il mio corpo come sesso e il suo corpo.”

Allora perché ci sono queste riserve nei terapeuti di coppia?
Temono forse che la valorizzazione della singolarità che è il genere dei partners, ci faccia ricadere sotto la prospettiva della psicologia individuale? L’alterità dell’altro, o ciò che l’altro ha come differenza irriducibile all’aspetto relazionale, condurrebbe alla perdita del valore gruppale e interattivo del modello? D’altra parte, evocare l’antenato e i traumi che ha subito e che si ripercuotono sulla coppia delle generazioni successive metterebbe in scacco la preminenza della situazione attuale?

Il tener conto della differenza dell’altro mi ha portato a chiedermi se il legame non comporta dei livelli di funzionamento distinti. Il livello arcaico non pone tanti problemi, è un funzionamento che evoca la messa in comune degli aspetti psichici più primitivi e indifferenziati. La sua tendenza è ad assimilare l’altro-soggetto all’altro-me.

Il livello più elaborato dovrebbe ugualmente trovare uno spazio nella misura in cui la singolarità dell’altro è sorgente d’attrazione : esso esercita una forza d’attrazione che è alla base dell’esogamia, anche se la prescrizione edipica vi gioca il suo ruolo. Noi andiamo verso l’altro perché il nostro genitore, nostro fratello o sorella di sesso opposto ci sono proibiti, ma andiamo verso di lui anche perché è un altro, che ha vissuto delle cose per noi sconosciute, che viene da un ambiente diverso, e ciò ci affascina.

Dal momento che l’altro è un altro soggetto e non solamente uno schermo-oggetto dei fantasmi e degli oggetti spostati e proiettati su di lui, si esplicano due modalità di relazione (che includono il fatto che ciascun soggetto della relazione è animato da intenzioni, che cioè simobilita verso l’altro soggetto, che agisce con lui, in relazione a lui): si tratta dei legami narcisistici, e dei legami libidici d’oggetto.

I legami narcisistici sono mossi dal nostro orientamento verso il simile, verso l’indifferenziazzione, verso l’imperituro, verso ciò che è costante. L’altro è vissuto come una parte di noi. Questi legami aiutano a consolidare e rinforzare la relazione, creano il noi della coppia, la sua identità e i suoi contorni.
Essi intervengono nella configurazione dell’intimità tra i partners, unica e introvabile nella sua forma in altri legami. I patti segreti e di negazione trovano in questi legami una base.

L’altro-soggetto è preso in considerazione dai legami narcisistici, sebbene la dimensione narcisistica tenda ad assimilare l’altro-soggetto dentro una continuità del sé. Il “tu sei un altro e tu sei gli altri che sono dentro di me” sono sempre in movimento e in contraddizione. Se i fondamenti narcisistici della relazione di coppia sono consolidati, prendono forma dei progetti condivisi ispirati da un ideale dell’io che è, se permettete l’espressione, un ideale degli io e dei non- io: è collettivo.

I legami libidici d’oggetto si instaurano sul sentimento che l’altro è diverso e allo stesso tempo evoca un oggetto interno, o più di uno. Detto diversamente, l’altro è in me e distinto da me. “ Io lo chiamo, lo vedo, lo riconosco e sono responsabile per lui” Ma “Sono sensibile al fatto che mi riconosca nel mio desiderio e nellamia identità. 

Se no, io soffro, temo che la sua libertà mi sfugga, che lui mi sfugga, che il nostro legame si dissolva.” A causa della sua funzione nella costruzione dei legami, la differenza di genere è motore e sorgente di una cura
costante (sotto l’influenza dell’Edipo e della castrazione).
Queste fondamentalmente le linee del legame di coppia.

Chi desiderasse conoscere il seguito dell'intervento può richiederci gli atti scrivendo a info@scuoladipsicodramma.com o telefonando allo 051.582211



martedì 11 dicembre 2012

Edipo: dalla tragedia alla famiglia moderna

Oggi attingiamo ad una parte dell'intervento del dott. Claudio Rossi, docente dell'Istituto Mosaico Psicologie di Bologna, avvenuto nel corso del Convegno sulla Coppia e la Famiglia.

"Vorrei partire con la lettura di un brano tratto dal Fedro di Platone ove Theut dio-scienziato presenta al faraone il suo ultimo espediente, la scrittura, descritta come medicina di sapienza e memoria. Questa è la risposta del faraone: “O ingegnosissimo Theut, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove; altra cosa è giudicare quale grado di danno e di utilità esse posseggono per coloro che le useranno.

E così ora – per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore – hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso genererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria, perché fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi ma dal di fuori, servendosi di segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente – né tu offri vera sapienza ai tuoi discepoli,ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che di sapere”.

Il passo va ben oltre l’arguzia dell’aneddoto – così inattuale e così attuale – : il dialogo filosofico autentico, il logos sta combattendo con la lettura, con la scrittura di cui Socrate dirà che “del discorso di chi sa, vivente e animato, essa potrebbe dirsi un’immagine”.

Il momento è quello tragico: Socrate ripete di non voler fare la fine di colui che per guardare in faccia il sole rimane accecato, meglio discutere della sua immagine riflessa, il mondo delle idee, il logos. D’altro canto la cultura greca si afferma come la voce sempre giovane che cancella le scritture, la voce che come Edipo, scioglie gli enigmi e gli occultismi connessi con l’Egitto per affermare la chiarezza, l’uomo, la ragione come canone filosofico.

Secondo un periplo da Oriente a Occidente – che ha il suo culmine nel momento tragico da cui riceve l’insuperabile antinomia: lo spirito vivente e animato ripudia la lettera morta, e insieme ad essa tutte quelle tracce – simulacro come le arti, nient’altro che simulazioni di vita; nello stesso tempo storna gli occhi dal sole ma ciò con cui questo è sostituito – logos, idea – del sole ha la stessa luce. Il passaggio da Est a Ovest passa dal mistero del mondo – alla luce del soggetto, il segno dell’Occidente di contro al simbolo dell’Oriente. Il logos abbandona il mito per farsi mito.

Questi sono gli albori – comunemente accettati – della autocoscienza. E dell’inconscio, mi viene da aggiungere subito. Il sostanza, l’Egitto come enigma da cui è “Necessità” staccarsi perché possa nascere la coscienza – il logos – che con la filosofia cerca di ostracizzare-esorcizzare il mistero, il thauma, di fronte al quale l’Egitto si era posto immobile, in un irriducibile simbolismo.

E questo si compie e si esalta passando per il breve, universale periodo della tragedia: un secolo o poco più, da cui noi oggi ancora dipendiamo. Perché – a tutt’oggi – le antinomie, gli impossibili da conciliare, le domande fondamentali sono ancora li. All’opposto, il cammino è stato quanto mai celere, quasi convulso, come negli ultimi secoli. L’allontanamento dall’enigma, partito tra ansie, dubbi e indecisioni si è fatto deciso, drastico come risultato di una “rimozione” per la quale l’Egitto ha approntato una specie di Edipo: dalla tragedia alla famiglia moderna inconscio trascendentale.

Questo mi pare ilmotivo psicologico per cui l’allontanamento ha preso la via dell’azione più che del pensiero, della tecnica più che della filosofia. Questa mi pare una prima idea degna di riflessione, quella per cui coscienza e inconscio hanno una specie di filiazione culturale e temporale nonché una manifesta problematicità relazionale che la tragedia ipostatizza una volta per tutte e nella quale lo sviluppo psicoanalitico si inserisce a pieno titolo.

Anche se, voi sapete, quale sia questo titolo – è scienza? È filosofia? – è oggetto di una affaticante polemica che ha motivazioni evidenti sia nella peculiarità del metodo, sia nell’opera del suo fondatore.
Comunque sia, la psicoanalisi si propone lo svelamento dell’inconscio a vantaggio della coscienza. “Dove era Es c’è Io” ha i crismi del grido di guerra dei lumi e per farlo il suo autore si attiene al procedere scientifico – naturale, se non proprio empirico. Ma in questo procedere la psicoanalisi riapre l’ambiguità tragica: la coscienza non è così luminosa e data, ci sono più cose nel “Sum” di quante ce ne siano nel “Cogito”, e tali cose non appaiono tutte pensabili. Al punto che è il fondamento stesso della filosofia e della scienza ad essere posto in discussione: il fondamento è posto come pregiudizio, il pregiudizio della coscienza.

È la scuola del sospetto: Marx, Nictzsche e Freud, la parentela è clamorosa, non fosse altro per il fatto che ciascuno di loro è stato relegato in un angolo, in attesa di collocazione dei loro esercizi di sospetto all’interno del nostro sapere. Ma con loro si libera, si riapre la ricerca, e tutti e tre partono dal sospetto sulla coscienza ma mirano ad una sua estensione: Marx col liberare la prassi, Niectzsche nello sviluppo di potenza, Freud con l’incremento dell’Io. Ma la psicoanalisi di Freud fa qualcosa di più o di diverso: essa ci spiega il perché di questo “ritardo” nell’accoglimento di questo sospetto. La coscienza fa resistenza al comprendersi: la umilia- zione narcisistica (dopo Copernico e Darwin) resiste alla apollinea chiarezza scientifica, dice Freud da buon razionalista.

Ciò a cui la natura umana fa resistenza è il “disoccultamento” - per narcisismo. La rivoluzione freudiana è la rivoluzione della diagnosi, della freddezza, della scienza, di chi dice “io non do nessuna consolazione”. È difficile essere uomo, è la durezza della vita, è il destino, diremmo noi: “il destino infantile” dice Freud.
Tragicità del destino infantile, come della “ripetizione” che riconduce instancabilmente “indietro”: ritorno del rimosso, regressione libidiche, lavoro del lutto, tendenza all’inorganico, thanatos. Insomma: tragico è l’Es, tragico il Super-io, tragico l’Io inconscio i cui intrecci si oppongono al disoccultamento.

Se il tragico dell’Edipo sta nella veridicità dell’accusa a se stesso, a fronte di Nictzsche che accusa l’accusa, Freud la comprende, la spiega, ne svela la struttura: la catarsi del desiderio andrà di pari passo con la catarsi della coscienza giudicante. Ma Freud, si sa, ha rotto il quadro limitato del rapporto terapeutico, aprendosi alla totalità del fenomeno umano. Anche da qui – la difficoltà di collocazione: la psicoanalisi è il passo con cui la scienza affonda lo stilo nelle profondità di coscienza, a fronte delle crepe che il “metodo certo” evidenzia? O è la filosofia che con un colpo di mano e violentando se stessa ripristina il suo potere sul metodo della scienza?

Io credo che la risposta stia nell’essenza tragica della psicoanalisi, cosa che impedisce una sua collocazione se non ambigua: tutto rimanda alla tragedia – in psicoanalisi – lì dove l’Io – la coscienza è compito, lì dove la verità diventa narrazione, lì dove il passato è il mito e il presente –appunto – tragedia.

Lì, nel paziente la coscienza è più che mai compito, e il passato, il mito, il simbolo, l’oscuro si interpongono alla chiarezza della coscienza: dove l’inconscio vive con la coscienza. E mentre dico questo – l’obiezione che la psicoanalisi archeologica non ha un “telos” scopre quello che della psicoanalisi è parte integrante: non è forse il “telos” della psicoanalisi l’allargamento dell’Io a spese dell’Es? Certo, un “telos” ambiguo, che lascia al paziente la scelta, si dirà. In ogni caso è cura, terapia del logos. Questo trasporto della psicoanalisi in una dimensione tragica ha un senso preciso che dovevo precisare: essa si presenta in tale contesto come “tecnica” nella quale il lavoro appare (o dovrebbe essere) il corrispettivo di ciò che appare la natura dell’uomo “che ama nascondersi”.

E tutto il teorema interpretativo freudiano si muove contro il fisicalismo e il biologismo della psicologia: nessuno ha contribuito più di Freud a rompere l’incanto del “fatto” e riconoscere la superiorità del “senso”. Tuttavia Freud non ha mai smesso di inscrivere le sue scoperte nel quadro positivista che esse distruggevano. Direi forzando: positivizzare ciò che non lo è, non riporta al tragico? E così, questa conoscenza lucida del carattere di “Necessità” dei conflitti, di fronte ai quali occorre riconciliarsi con l’inevitabile, rimanda pari pari ai tratti del sapere tragico: non è clamoroso che Freud –il biologo, il positivista, il determinista- ogni volta che ha voluto dire l’essenziale ha pescato nel mito tragico?

Edipo, Narciso, Eros, Ananke, Thanatos, …Mi pare difficile la collocazione dell’opus freudiano a distanza da una difficile assimilazione del vero sapere tragico. Ma certo, la presa di coscienza offerta dalla psicoanalisi
al moderno fa riferimento al dolore e al limite come strada di riconciliazione legiferata da Eschilo: “Tò pàtei
màtos”, si comprende attraverso il soffrire. Da qui – per inciso – io farei partire lo scollegamento tra filosofia e psicoanalisi quando volgarmente si dice: la prima pensa, la seconda cura. Certo anche la psicoanalisi pensa, come il filosofo conosce la parola che cura. Ma la filosofia non “sente” il dolore, il thauma: certo, lo conosce, da esso è nata, ma altra cosa è conoscere, altra è sentire. Oggi che tutto conosciamo e poco esperiamo, oggi il dolore si sente più che mai.


Questo modo, questo luogo è quello del pathos – che la filosofia conosce come luogo del tragico e la psicoanalisi come luogo della cura. Ma forse che il tragico si può curare? La riduzione psicoanalitica, quella specie di passe-partout psicosessuale che tanto irrita storici, mitologi e grecisti, soffre certamente di un “letteralismo edipico” – figlio della tragedia, oltre che del suo proprio tempo – che vorrebbe istituirsi come chiarimento “al di là” del mito. Non si può tuttavia nascondere come la psicoanalisi si proponga in termini di variante latente del mito edipico nel momento in cui il chiarimento presente nella versione tragica evolve nella direzione della riflessione sull’uomo e su di sé.


Non credo si tolga molto alla psicoanalisi inserendola come momento – significativamente attuale – della dialettica tra mito e spiegazione – certamente al di qua del mito. E quando Freud afferma: “la visione mitologica del mondo… non è altro che psicologia proiettata nelmondo esterno”, questo è ancora mito. Magari un mito vestito dell’abito grigio del razionalismo scientifico: ma sarebbe fare un torto a Freud –ed alle sue pagine più tarde e più belle – dimenticare la mai dismessa consapevolezza di coscienza tragica. Scrive ad Ennstein: “lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie dimitologia, neppur lieta in verità.

Ma non approda forse ogni scienza naturale ad una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per lei nel campo della fisica?”. Ed all’amico Fliess confida sul filosofo tragico “Ho comprato Nictzsche, ma non l’ho letto per paura di ritrovarmici troppo”. Dall’altro capo, ecco come Eschilo fa parlare Prometeo:” Ho reso gli uomini che prima erano sciocchi – assennati e padroni delle loro menti, prima vedevano invano, udendo non udivano, … per primo discernetti dai sogni quelle cose che bisogna diventino realtà, feci conoscere i segni per essi difficili da discernere…”.


(E significativamente, il coro ribatte: “ sviato di mente vai errando…”.) Come vedete, tutti gli elementi che finora abbiamo considerato accomunano in un certo quale senso uno slittamento verso una dimensione universale, intorno all’uomo, le sue origini, il suo destino in un ambiguo movimento circolare che la tragedia così meravigliosamente sintetizza quando Edipo afferma “io voglio sapere” e Tiresia risponde “sai tu da chi sei nato”?.

Sempre – la collocazione della tragedia è a cavallo tra storicità e transistoricità: l’Edipo pretragico di Omero regna e muore nella sua Tebe, occorre Sofocle perché l’Edipo divenga tragedia. È quindi in fondo un’invenzione, che ha un senso sociale, letterario e culturale. Tali sensi fanno riferimento ai vissuti storici e politici dell’epoca,ma il senso transistorico che ne emerge è altro: è la produzione che tale uomo, figlio e padre di quel momento – rappresenta, mette in scena per la prima volta come sguardo su se stesso, come riflessione – rappresentazione.

La tragedia necessita della messa in discussione del passato per bilanciare lamessa in discussione del proprio
presente – su cui la rappresentazione ha effetto – diremo noi – terapeutico: il crearsi di una distanza emotiva che faccia seguito ad una distanza instauratasi col pensiero razionale, con la polis, con l’autocoscienza – che rischia di lasciare l’uomo solo in balia di un passato ancora presente e di un disegno di cui non si sente ancora padrone. Detto per inciso, non è un caso che così spesso la tragedia assuma i connotati di un dibattito giuridico, a fronte di una volontà, di una responsabilità tutta nuova dell’agire umano, i cui connotati si prestano a continue incertezze, doppi sensi, ambiguità e rovesciamenti che testimoniano due ordini di causalità – umana e divina, conscia e inconscia diremo noi – spesso antitetici, tra cui si inizia a sottolineare la distinzione ma anche l’assoluta indissociabilità .

E questo ci appare il cuore del tragico. Queste categorie non si presentano infatti come esclusive, su cui l’agire dell’uomo si può distribuire – o qui, o là – seguendo la volontà di iniziativa del soggetto: questi non è più strumento dell’azione secondo un disegno a lui sconosciuto, ma neppure è agente produttore della sua azione – essendo essa inscritta in un ordine temporale – senza tempo – che lo supera. È così che il coro potrà dire ad Edipo “ti ha scoperto tuo malgrado il tempo che vede ogni cosa”. Il mito, degli dei, dell’eroe, della stirpe, della famiglia appaiono ormai lontani per una lettura “letterale”, ma certamente presenti, perché il loro allontanamento non debba ancora essere visto pieno di incognite.

Quando Solone assiste alla prima rappresentazione tragica abbandona indignato il teatro dicendo che non si sarebbe tardato a vedere gli esiti nefasti di tali finzioni nei cittadini: l’uomo della polis democratica sente il passato ancora incombente per poter essere impunemente evocato.Ma questa dimensione storica- politica va di pari passo con un’altra.

E quando Platonemanifesta la sua ostilità verso la tragedia lo fa attribuendo ad essa quelle caratteristiche “false” della rappresentazione che la verità filosofica ha sostituito tra vero e falso, con il principio di non contraddizione. È forse qui la macroscopica contraddizione platonica –che situa il dialogo, il logos vivo socratico, a metà strada, con l’anamnesi infinita su cui il greco costruisce l’eterna giovinezza del suo logos, della sua coscienza. Come dire: non c’è autocoscienza che non abbia un riferimento lontano, già dato; non c’è mai una rimozione riuscita, come nessuna giovinezza è interamente tale. Archeologia e teleologia sono da
sempre insieme. C’è infondo – in questo – un problema di distanza: Solone è troppo vicino al passato perché si possa impunemente rappresentarlo; Platone ne è ormai distante al punto da valutare falsa ogni rappresentazione. E noi oggi?"

Se vuoi proseguire con la lettura di questo articolo scrivici a info@scuoladipsicodramma.com

martedì 4 dicembre 2012

Sabato 15 dicembre ore 9 nella sede di Via Farini 3 

dell'Istituto Mosaico Psicologie di Bologna,

ultima presentazione dell'anno di
Psicodramma Analitico 






Presenti gli allievi della scuola 

di specializzazione in psicoterapia del IV anno, 

Dirige lo psicodramma il dr, Alfredo Rapaggi

INGRESSO GRATUITO CON PRENOTAZIONE

 info@scuoladipsicodramma.com  tel 051582211

Gruppo di Psicodramma analitico residenziale 2013

Si può fare il gruppo residenziale di psicodramma analitico nel 2013? 
Si possono ancora trascorrere 5 giorni di vita in comune con la principale attività di psicodramma analitico, senza che le fantasie e le metafore che scorrono sulla scena dello psicodramma invadano la vita reale?
Insomma, si può vivere la repressione per cinque intensissimi giorni  mentre si cerca una strada psicoanalitica di fuga da tutto ciò che ci reprime? 
La domanda si è fatta sempre più insistente dopo che ho deciso di non ripetere l'esperienza  di Cereglio. 
E nel prossimo intervento spero di riuscire a spiegare perché

Alfredo Rapaggi

lunedì 3 dicembre 2012

Romanzi di Coppia: la lettura del corpo - gli occhi


Oggi prendiamo dal libro del dott. Rapaggi il paragrafo riguardo la lettura del corpo sugli occhi.

Gli occhi sono la parte più espressiva del viso, la più direttamente collegata alla psiche, sia per la loro vicinanza fisica al cervello, sia per la loro trasparenza, sia perché incaricati di portare la maggior parte d’informazioni. 

Insomma non è solo un detto popolare che siano lo specchio dell’anima, cioè della psiche.
Nelle considerazioni e negli schemi che seguiranno i termini “maschile” e “femminile” si riferiscono a degli stati psicologici, non alle persone “maschi” e “femmine”.


Consideriamo ora tre aspetti:
  1. se vedere e osservare è l’attività tipica degli occhi, possiamo dire che attraverso gli occhi dell’analista gran parte dei messaggi corporei del paziente si svelano automaticamente;
  2. ogni persona vede il mondo esterno attraverso uno schermo su cui possiamo immaginare che siano contemporaneamente proiettati i propri sentimenti, i propri conflitti e le proprie resistenze; per conseguenza ogni persona vede il mondo esterno in modo non obiettivo;
  3. anche gli occhi rispettano la legge della differenza tra destra e sinistra.

In seguito a quest’ultimo punto diciamo che l’osservazione degli occhi viene fatta meglio se lo psicoterapeuta pone una mano come linea immaginaria di divisione tra l’occhio destro e quello sinistro del soggetto, ovvero se copre uno dei suoi occhi, escludendo dal suo campo visivo le altre parti del viso che sta guardando.

Come ho scritto prima, quando si osserva un individuo adulto si valutano l’equilibrio tra le due parti e l’energia di ognuna. 
In questo caso, la differenza tra i due occhi segnala il grado di equilibrio tra il destro e il sinistro, mentre ogni occhio mostra all’osservatore quanta energia viene impiegata per comunicare, e se la comunicazione è positiva, negativa o nascosta.


Guardiamo per primo l’occhio sinistro.

Poiché secondo la teoria di cui abbiamo parlato prima, pare che l’occhio sinistro sia espressione del legame con il femminile, ipotizziamo che ci possa dare indicazioni sulla prima parte della vita del soggetto, in quelle che la psicoanalisi chiama fase orale e fase anale, cioè degli stati in cui è determinante il rapporto con la madre.


Il simbolismo femminile sarebbe espresso sia nel senso di canale ricettivo, capace di rivivere l’affettività dei momenti d’interiorizzazione, sia come valvola psicologica di chiusura necessaria a trattenere: una difesa rispetto al distacco e alle conseguenti angosce di separazione. 

Se dunque l’espressione dell’occhio sinistro è tranquilla, possiamo dedurre che quella persona è stata cresciuta in un ambiente amorevole e soprattutto sicuro, che ha confermato il suo diritto di essere così come natura l’ha fatta, di vivere e di avere quella certa tendenza naturale. Un ambiente che non le ha fatto subire il trauma costante della previsione di un pericolo sempre in agguato, né sporadici episodi di vero abbandono, né situazioni comunque scompensanti.


Lo schermo immaginario, che abbiamo ipotizzato essere davanti ai suoi occhi, è quasi limpido, non deforma troppo la realtà con angosce interiori.

Al negativo l’occhio sinistro può rappresentare:
  • la previsione negativa, l’ansia che la madre si allontani in qualunque senso, e per estensione del concetto, l’ansia che una persona o una situazione sicura venga a mancare;
  • un’ombra paranoica, la fantasia che l’ambiente sia minaccioso e l’angoscia di non riuscire a contrastarlo;
  • l’interiorizzazione di uno o più comandi di adattamento ad una condizione molto diversa da quella naturale;
  • un lutto, una perdita reale non ancora elaborata.
Tornando al positivo diciamo che sarà difficile trovare un’espressione tranquilla nell’occhio sinistro e ipotizzare una mancanza d’energia nell’occhio destro, dal momento che una prima parte della vita vissuta nel modo giusto dovrebbe gettare le basi per un seguito altrettanto sereno.

L’occhio destro 
Salvo dunque traumi nelle fasi successive della formazione, l’occhio destro corrispondente al sinistro positivo che abbiamo immaginato prima, sarebbe altrettanto sereno.

Abbiamo detto che l’occhio destro rappresenterebbe l’elemento estrinseco, quello maschile, nel senso dell’energia che esce, che viene proiettata all’esterno, che viene simbolicamente eiaculata.
Sarebbe collocato, nella mappa della formazione psico-sessuale, nella fase edipica e fallica, quando il genitore di riferimento è il padre. 

Al positivo: il padre che sfida il maschio permettendogli di diventare un uomo forte e il padre che dà alla femmina le coordinate per arrivare al maschio adulto; questa condizione, come ho detto, darebbe luogo ad un occhio destro sereno.


Al negativo ci sono due complicazioni: 
  1. il figlio che vede nel padre la minaccia di una propria castrazione per l’amore e il desiderio che prova per la madre, e la figlia che si sente castrata, menomata nel suo tentativo di avere il padre; entrambe le condizioni dovrebbero dar luogo ad un occhio destro aggressivo;
  2. la figlia che si sente castrata in quanto priva del fallo che la legherebbe per sempre alla madre, evitandole l’angoscia da distacco e il figlio che si vede costretto a farsi sodomizzare dal padre per difendere il suo rapporto segreto con la madre, alla quale vuole restare legato per sempre per la stessa ragione di evitare l’angoscia del distacco; anche queste due condizioni dovrebbero dar luogo ad un occhio destro con espressione aggressiva.
Ma sia nel primo che nel secondo di questi casi, l’espressione aggressiva può essere palese o nascosta o negata.
  • L’espressione aggressiva palese ha l’occhio dilatato, a volte leggermente in fuori;
  • l’espressione aggressiva nascosta ha l’occhio destro rassegnato, privo di energia, depresso;
  • l’espressione aggressiva negata ha l’occhio vitreo, privo di emozioni, cinico.
L’equilibrio tra l’occhio destro e quello sinistro: per coloro che volessero approfondire questo argomento è possibile ordinare "Romanzi di Coppia" scrivendo a info@scuoladipsicodramma.com