martedì 11 dicembre 2012

Edipo: dalla tragedia alla famiglia moderna

Oggi attingiamo ad una parte dell'intervento del dott. Claudio Rossi, docente dell'Istituto Mosaico Psicologie di Bologna, avvenuto nel corso del Convegno sulla Coppia e la Famiglia.

"Vorrei partire con la lettura di un brano tratto dal Fedro di Platone ove Theut dio-scienziato presenta al faraone il suo ultimo espediente, la scrittura, descritta come medicina di sapienza e memoria. Questa è la risposta del faraone: “O ingegnosissimo Theut, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove; altra cosa è giudicare quale grado di danno e di utilità esse posseggono per coloro che le useranno.

E così ora – per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore – hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso genererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria, perché fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi ma dal di fuori, servendosi di segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente – né tu offri vera sapienza ai tuoi discepoli,ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che di sapere”.

Il passo va ben oltre l’arguzia dell’aneddoto – così inattuale e così attuale – : il dialogo filosofico autentico, il logos sta combattendo con la lettura, con la scrittura di cui Socrate dirà che “del discorso di chi sa, vivente e animato, essa potrebbe dirsi un’immagine”.

Il momento è quello tragico: Socrate ripete di non voler fare la fine di colui che per guardare in faccia il sole rimane accecato, meglio discutere della sua immagine riflessa, il mondo delle idee, il logos. D’altro canto la cultura greca si afferma come la voce sempre giovane che cancella le scritture, la voce che come Edipo, scioglie gli enigmi e gli occultismi connessi con l’Egitto per affermare la chiarezza, l’uomo, la ragione come canone filosofico.

Secondo un periplo da Oriente a Occidente – che ha il suo culmine nel momento tragico da cui riceve l’insuperabile antinomia: lo spirito vivente e animato ripudia la lettera morta, e insieme ad essa tutte quelle tracce – simulacro come le arti, nient’altro che simulazioni di vita; nello stesso tempo storna gli occhi dal sole ma ciò con cui questo è sostituito – logos, idea – del sole ha la stessa luce. Il passaggio da Est a Ovest passa dal mistero del mondo – alla luce del soggetto, il segno dell’Occidente di contro al simbolo dell’Oriente. Il logos abbandona il mito per farsi mito.

Questi sono gli albori – comunemente accettati – della autocoscienza. E dell’inconscio, mi viene da aggiungere subito. Il sostanza, l’Egitto come enigma da cui è “Necessità” staccarsi perché possa nascere la coscienza – il logos – che con la filosofia cerca di ostracizzare-esorcizzare il mistero, il thauma, di fronte al quale l’Egitto si era posto immobile, in un irriducibile simbolismo.

E questo si compie e si esalta passando per il breve, universale periodo della tragedia: un secolo o poco più, da cui noi oggi ancora dipendiamo. Perché – a tutt’oggi – le antinomie, gli impossibili da conciliare, le domande fondamentali sono ancora li. All’opposto, il cammino è stato quanto mai celere, quasi convulso, come negli ultimi secoli. L’allontanamento dall’enigma, partito tra ansie, dubbi e indecisioni si è fatto deciso, drastico come risultato di una “rimozione” per la quale l’Egitto ha approntato una specie di Edipo: dalla tragedia alla famiglia moderna inconscio trascendentale.

Questo mi pare ilmotivo psicologico per cui l’allontanamento ha preso la via dell’azione più che del pensiero, della tecnica più che della filosofia. Questa mi pare una prima idea degna di riflessione, quella per cui coscienza e inconscio hanno una specie di filiazione culturale e temporale nonché una manifesta problematicità relazionale che la tragedia ipostatizza una volta per tutte e nella quale lo sviluppo psicoanalitico si inserisce a pieno titolo.

Anche se, voi sapete, quale sia questo titolo – è scienza? È filosofia? – è oggetto di una affaticante polemica che ha motivazioni evidenti sia nella peculiarità del metodo, sia nell’opera del suo fondatore.
Comunque sia, la psicoanalisi si propone lo svelamento dell’inconscio a vantaggio della coscienza. “Dove era Es c’è Io” ha i crismi del grido di guerra dei lumi e per farlo il suo autore si attiene al procedere scientifico – naturale, se non proprio empirico. Ma in questo procedere la psicoanalisi riapre l’ambiguità tragica: la coscienza non è così luminosa e data, ci sono più cose nel “Sum” di quante ce ne siano nel “Cogito”, e tali cose non appaiono tutte pensabili. Al punto che è il fondamento stesso della filosofia e della scienza ad essere posto in discussione: il fondamento è posto come pregiudizio, il pregiudizio della coscienza.

È la scuola del sospetto: Marx, Nictzsche e Freud, la parentela è clamorosa, non fosse altro per il fatto che ciascuno di loro è stato relegato in un angolo, in attesa di collocazione dei loro esercizi di sospetto all’interno del nostro sapere. Ma con loro si libera, si riapre la ricerca, e tutti e tre partono dal sospetto sulla coscienza ma mirano ad una sua estensione: Marx col liberare la prassi, Niectzsche nello sviluppo di potenza, Freud con l’incremento dell’Io. Ma la psicoanalisi di Freud fa qualcosa di più o di diverso: essa ci spiega il perché di questo “ritardo” nell’accoglimento di questo sospetto. La coscienza fa resistenza al comprendersi: la umilia- zione narcisistica (dopo Copernico e Darwin) resiste alla apollinea chiarezza scientifica, dice Freud da buon razionalista.

Ciò a cui la natura umana fa resistenza è il “disoccultamento” - per narcisismo. La rivoluzione freudiana è la rivoluzione della diagnosi, della freddezza, della scienza, di chi dice “io non do nessuna consolazione”. È difficile essere uomo, è la durezza della vita, è il destino, diremmo noi: “il destino infantile” dice Freud.
Tragicità del destino infantile, come della “ripetizione” che riconduce instancabilmente “indietro”: ritorno del rimosso, regressione libidiche, lavoro del lutto, tendenza all’inorganico, thanatos. Insomma: tragico è l’Es, tragico il Super-io, tragico l’Io inconscio i cui intrecci si oppongono al disoccultamento.

Se il tragico dell’Edipo sta nella veridicità dell’accusa a se stesso, a fronte di Nictzsche che accusa l’accusa, Freud la comprende, la spiega, ne svela la struttura: la catarsi del desiderio andrà di pari passo con la catarsi della coscienza giudicante. Ma Freud, si sa, ha rotto il quadro limitato del rapporto terapeutico, aprendosi alla totalità del fenomeno umano. Anche da qui – la difficoltà di collocazione: la psicoanalisi è il passo con cui la scienza affonda lo stilo nelle profondità di coscienza, a fronte delle crepe che il “metodo certo” evidenzia? O è la filosofia che con un colpo di mano e violentando se stessa ripristina il suo potere sul metodo della scienza?

Io credo che la risposta stia nell’essenza tragica della psicoanalisi, cosa che impedisce una sua collocazione se non ambigua: tutto rimanda alla tragedia – in psicoanalisi – lì dove l’Io – la coscienza è compito, lì dove la verità diventa narrazione, lì dove il passato è il mito e il presente –appunto – tragedia.

Lì, nel paziente la coscienza è più che mai compito, e il passato, il mito, il simbolo, l’oscuro si interpongono alla chiarezza della coscienza: dove l’inconscio vive con la coscienza. E mentre dico questo – l’obiezione che la psicoanalisi archeologica non ha un “telos” scopre quello che della psicoanalisi è parte integrante: non è forse il “telos” della psicoanalisi l’allargamento dell’Io a spese dell’Es? Certo, un “telos” ambiguo, che lascia al paziente la scelta, si dirà. In ogni caso è cura, terapia del logos. Questo trasporto della psicoanalisi in una dimensione tragica ha un senso preciso che dovevo precisare: essa si presenta in tale contesto come “tecnica” nella quale il lavoro appare (o dovrebbe essere) il corrispettivo di ciò che appare la natura dell’uomo “che ama nascondersi”.

E tutto il teorema interpretativo freudiano si muove contro il fisicalismo e il biologismo della psicologia: nessuno ha contribuito più di Freud a rompere l’incanto del “fatto” e riconoscere la superiorità del “senso”. Tuttavia Freud non ha mai smesso di inscrivere le sue scoperte nel quadro positivista che esse distruggevano. Direi forzando: positivizzare ciò che non lo è, non riporta al tragico? E così, questa conoscenza lucida del carattere di “Necessità” dei conflitti, di fronte ai quali occorre riconciliarsi con l’inevitabile, rimanda pari pari ai tratti del sapere tragico: non è clamoroso che Freud –il biologo, il positivista, il determinista- ogni volta che ha voluto dire l’essenziale ha pescato nel mito tragico?

Edipo, Narciso, Eros, Ananke, Thanatos, …Mi pare difficile la collocazione dell’opus freudiano a distanza da una difficile assimilazione del vero sapere tragico. Ma certo, la presa di coscienza offerta dalla psicoanalisi
al moderno fa riferimento al dolore e al limite come strada di riconciliazione legiferata da Eschilo: “Tò pàtei
màtos”, si comprende attraverso il soffrire. Da qui – per inciso – io farei partire lo scollegamento tra filosofia e psicoanalisi quando volgarmente si dice: la prima pensa, la seconda cura. Certo anche la psicoanalisi pensa, come il filosofo conosce la parola che cura. Ma la filosofia non “sente” il dolore, il thauma: certo, lo conosce, da esso è nata, ma altra cosa è conoscere, altra è sentire. Oggi che tutto conosciamo e poco esperiamo, oggi il dolore si sente più che mai.


Questo modo, questo luogo è quello del pathos – che la filosofia conosce come luogo del tragico e la psicoanalisi come luogo della cura. Ma forse che il tragico si può curare? La riduzione psicoanalitica, quella specie di passe-partout psicosessuale che tanto irrita storici, mitologi e grecisti, soffre certamente di un “letteralismo edipico” – figlio della tragedia, oltre che del suo proprio tempo – che vorrebbe istituirsi come chiarimento “al di là” del mito. Non si può tuttavia nascondere come la psicoanalisi si proponga in termini di variante latente del mito edipico nel momento in cui il chiarimento presente nella versione tragica evolve nella direzione della riflessione sull’uomo e su di sé.


Non credo si tolga molto alla psicoanalisi inserendola come momento – significativamente attuale – della dialettica tra mito e spiegazione – certamente al di qua del mito. E quando Freud afferma: “la visione mitologica del mondo… non è altro che psicologia proiettata nelmondo esterno”, questo è ancora mito. Magari un mito vestito dell’abito grigio del razionalismo scientifico: ma sarebbe fare un torto a Freud –ed alle sue pagine più tarde e più belle – dimenticare la mai dismessa consapevolezza di coscienza tragica. Scrive ad Ennstein: “lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie dimitologia, neppur lieta in verità.

Ma non approda forse ogni scienza naturale ad una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per lei nel campo della fisica?”. Ed all’amico Fliess confida sul filosofo tragico “Ho comprato Nictzsche, ma non l’ho letto per paura di ritrovarmici troppo”. Dall’altro capo, ecco come Eschilo fa parlare Prometeo:” Ho reso gli uomini che prima erano sciocchi – assennati e padroni delle loro menti, prima vedevano invano, udendo non udivano, … per primo discernetti dai sogni quelle cose che bisogna diventino realtà, feci conoscere i segni per essi difficili da discernere…”.


(E significativamente, il coro ribatte: “ sviato di mente vai errando…”.) Come vedete, tutti gli elementi che finora abbiamo considerato accomunano in un certo quale senso uno slittamento verso una dimensione universale, intorno all’uomo, le sue origini, il suo destino in un ambiguo movimento circolare che la tragedia così meravigliosamente sintetizza quando Edipo afferma “io voglio sapere” e Tiresia risponde “sai tu da chi sei nato”?.

Sempre – la collocazione della tragedia è a cavallo tra storicità e transistoricità: l’Edipo pretragico di Omero regna e muore nella sua Tebe, occorre Sofocle perché l’Edipo divenga tragedia. È quindi in fondo un’invenzione, che ha un senso sociale, letterario e culturale. Tali sensi fanno riferimento ai vissuti storici e politici dell’epoca,ma il senso transistorico che ne emerge è altro: è la produzione che tale uomo, figlio e padre di quel momento – rappresenta, mette in scena per la prima volta come sguardo su se stesso, come riflessione – rappresentazione.

La tragedia necessita della messa in discussione del passato per bilanciare lamessa in discussione del proprio
presente – su cui la rappresentazione ha effetto – diremo noi – terapeutico: il crearsi di una distanza emotiva che faccia seguito ad una distanza instauratasi col pensiero razionale, con la polis, con l’autocoscienza – che rischia di lasciare l’uomo solo in balia di un passato ancora presente e di un disegno di cui non si sente ancora padrone. Detto per inciso, non è un caso che così spesso la tragedia assuma i connotati di un dibattito giuridico, a fronte di una volontà, di una responsabilità tutta nuova dell’agire umano, i cui connotati si prestano a continue incertezze, doppi sensi, ambiguità e rovesciamenti che testimoniano due ordini di causalità – umana e divina, conscia e inconscia diremo noi – spesso antitetici, tra cui si inizia a sottolineare la distinzione ma anche l’assoluta indissociabilità .

E questo ci appare il cuore del tragico. Queste categorie non si presentano infatti come esclusive, su cui l’agire dell’uomo si può distribuire – o qui, o là – seguendo la volontà di iniziativa del soggetto: questi non è più strumento dell’azione secondo un disegno a lui sconosciuto, ma neppure è agente produttore della sua azione – essendo essa inscritta in un ordine temporale – senza tempo – che lo supera. È così che il coro potrà dire ad Edipo “ti ha scoperto tuo malgrado il tempo che vede ogni cosa”. Il mito, degli dei, dell’eroe, della stirpe, della famiglia appaiono ormai lontani per una lettura “letterale”, ma certamente presenti, perché il loro allontanamento non debba ancora essere visto pieno di incognite.

Quando Solone assiste alla prima rappresentazione tragica abbandona indignato il teatro dicendo che non si sarebbe tardato a vedere gli esiti nefasti di tali finzioni nei cittadini: l’uomo della polis democratica sente il passato ancora incombente per poter essere impunemente evocato.Ma questa dimensione storica- politica va di pari passo con un’altra.

E quando Platonemanifesta la sua ostilità verso la tragedia lo fa attribuendo ad essa quelle caratteristiche “false” della rappresentazione che la verità filosofica ha sostituito tra vero e falso, con il principio di non contraddizione. È forse qui la macroscopica contraddizione platonica –che situa il dialogo, il logos vivo socratico, a metà strada, con l’anamnesi infinita su cui il greco costruisce l’eterna giovinezza del suo logos, della sua coscienza. Come dire: non c’è autocoscienza che non abbia un riferimento lontano, già dato; non c’è mai una rimozione riuscita, come nessuna giovinezza è interamente tale. Archeologia e teleologia sono da
sempre insieme. C’è infondo – in questo – un problema di distanza: Solone è troppo vicino al passato perché si possa impunemente rappresentarlo; Platone ne è ormai distante al punto da valutare falsa ogni rappresentazione. E noi oggi?"

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